Perché scriviamo storie?
Lo so che sembra una di quelle domande retoriche che non portano a niente. Mi è capitato spesso, nella vita, di confondere la domanda con la risposta.
Sono le risposte che diamo a friggere l'aria, non le domande.
Il segreto con questo tipo di domande è andare oltre, non accontentarsi della prima risposta che ci viene in mente.
Non esistono domande stupide, le risposte stupide invece sono più dei follower di Khaby Lame. Le risposte che ci diamo sono il segreto dell'apprendimento. E siccome dietro a ogni buona storia c'è qualcosa da imparare, chi scrive dovrebbe sapere che non si può accontentare della prima risposta.
Bisogna saper grattare la superficie delle idee: a questo serve la penna. È uno scalpello con cui sveliamo la forma del mondo.
Tutto il resto è Siri. La prima risposta è sempre quella giusta.
"Ehi Siri, mi puoi chiamare la nonna?"
"Chiamo il ristorante 'La Collina'."
Un po' di backstory, adesso.
Io ho cominciato a scrivere perché a sedici anni non sapevo con chi parlare. Avevo questa vocina nella testa e mi accontentavo spesso della prima risposta che mi dava.
Ho sempre sentito l'urgenza di raccontare storie, ma per me le storie facevano parte del mondo del gioco. Da piccolo, i mattoncini erano un pretesto per costruire dei mondi in cui si muovevano i personaggi che mi ero creato.
Ho capito soltanto dopo che c'era un legame tra il gioco, le parole che mi giravano nella testa e tutte le risposte frettolose che mi davo.
Flashforward. Parecchi taccuini dopo mi comincio ad annoiare di me stesso. Così un giorno mi chiedo: e se invece di scrivere dei miei problemi, ci giocassi e li usassi per qualcosa di divertente?
Così i miei problemi, le mie parole (ne avevo un sacco!) sono diventati i mattoncini con cui giocare e costruire le storie. Grazie alle parole potevo tornare a giocare con gli altri, proprio come facevo da bambino. Grazie al gioco, potevo cercare ti trovare nuove risposte.
Perché scriviamo storie?