Altro giro, altro scrittore polare
Leggiamo insieme un altro estratto de 'La Morte e Miracoli' e vediamo chi potrebbe essere in questo caso lo scrittore polare al quale mi sono ispirato. Oggi conosciamo meglio i protagonisti!
Ehi, come stai? Cominciato le vacanze?
Qui si scrive, nel frattempo. Ecco come potrebbe suonare uno dei primi capitoli del nuovo romanzo. Di seguito una bozza del primo incontro tra i protagonisti della nostra storia.
Il romanzo è raccontato in gran parte dal punto di vista di Marco Miracoli, ex carabiniere dei corpi speciali che ha sostituito il padre a capo dell’azienda di famiglia: la Casa Funebre Miracoli di Torre di Reno.
La sfida narrativa è questa: abbiamo parlato degli scrittori polari che ho scelto per il progetto. In questa fase del ciclo di produttività creativa, ovvero del MODELLO S.C.R.I.V.O. verifichiamo, ovvero facciamo prove e diamo forma nei dettagli al romanzo.
Ora devi indovinare a chi mi sono ispirato per questa prova di stesura: Dennis Lehane o Neil Gaiman?
Rispondi alla mail, fammi sapere che te ne pare e chi è lo scrittore polare di questa settimana. La prossima vedremo se ci hai azzeccato.
Buona lettura con La Morte e Miracoli.
MARCO E VITA
La mattina in cui ho incontrato Vita Zanato per la prima volta erano in corso i preparativi per il funerale di mio padre.
Io mi ero da poco infilato nel completo scuro che avevo ordinato su internet la sera prima. Nell'armadio di mio padre non c’era niente della mia taglia e non possedevo vestiti adatti al mio nuovo lavoro.
Eravamo diversi in tutto, io e Achille. Cominciando dalla misura delle spalle. Le mie erano larghe per via della palestra, le sue per via delle responsabilità che aveva dovuto sopportare.
Aveva cresciuto due bambini da vedovo, mentre manteneva attiva la più grande azienda di pompe funebri della provincia e continuava ogni giorno a essere un uomo mite e amorevole con tutti i suoi clienti. O come li chiamava lui, i suoi assistiti.
La nuova giacca mi stava abbastanza bene, la studiavo nei riflessi della vetrina semi-trasparente che si affacciava sul portico. I pantaloni, invece, erano stretti sulle cosce al punto da limitare la mia mobilità. Camminavo come un pinguino, ma per fortuna non dovevo muovermi più di tanto.
Eravamo chiusi al pubblico quella mattina, queste erano le disposizioni del vecchio Achille. Tutte le energie sarebbero state dedicate alla preparazione del suo ultimo funerale.
I dipendenti della Casa Funebre Miracoli andavano e venivano da quello che era diventato soltanto da poche ore il mio ufficio. Si trattava di un ampio ed elegante studio in stile Luigi XVI interamente in ciliegio, ricavato in un box alla sinistra dell'androne d’ingresso.
Dalla mia posizione potevo vedere la scrivania della reception, le due poltrone Frau che le stavano davanti e lo sguardo umido di Felicita seduta dall'altra parte.
La storica segretaria di mio padre ere l'incaricata all'accoglienza della Casa Funebre Miracoli, ma quella mattina l'unica cosa che avremmo dovuto accogliere era la morte. Come molti calzolai, vestivamo scarpe rotte.
Io in compagnia della morte pensavo di esserci cresciuto, vista l'attività di famiglia. I Miracoli erano i beccamorti di Torre di Reno da sei generazioni.
Dopo il diploma, però, la guerra mi aveva insegnato che non sapevo nulla sulla morte. Dodici missioni all'estero e qualche migliaio di ore di addestramento erano riusciti a insegnarmi abbastanza sulla vita e come conservarla, ma niente di niente sulla morte.
E ora che il vecchio Miracoli era diventato cliente premium della sua stessa attività, la maledizione di famiglia sarebbe toccata a me. Per colpa di una vecchia promessa mi ero ritrovato a capo di una famiglia che non conoscevo più.
Quando Vita aveva fatto il suo ingresso sulla scena ero piegato sulle carte che mio padre aveva lasciato, cercavo di ricostruire ultimi giorni prima che si spegnesse.
Mi accorsi che c'era qualcuno seduto alla reception solo per la reazione di Felicita che aveva d’improvviso rotto l'argine del pianto. Alzai lo sguardo e la vidi che singhiozzava consolata da una figura vestita di scuro.
"Mi dispiace," dissi avvicinandomi col passo del pinguino. "Oggi siamo chiusi."
La figura vestita di nero era una donna. Si stava sporgendo dalla poltrona per accarezzare le mani giunte della povera Felicita.
Notai subito i guanti di seta che indossava. Erano guanti lunghi e stretti che risalivano lungo le sue braccia fino a lasciare scoperta una sottile fascia di pelle chiarissima sopra i gomiti.
Il vestito la fasciava stretta e saliva fino a coprirle il collo. Quando si lasciò cadere lo scialle vidi che un'ampia regione della schiena era invece scoperta. Bianchissima, quasi trasparente.
Sulla retina mi era rimasto impresso il colore vermiglio dei suoi capelli. Erano tanti, erano mossi e le nascondevano il volto.
Non era una signora, era poco più di una ragazza. Lo pensai mentre Felicita si rasserenava per le parole che lei le stava sussurrando. Chissà cosa si erano dette.
"Scusami," insistetti io passando al Tu e indicando l’uscita. "Oggi purtroppo non possiamo servire clienti."
Lei mi ignorò ancora qualche secondo come se volesse assicurarsi che Felicita stesse meglio, poi senza girarsi verso di me sentii per la prima volta la sua voce.
Una voce roca, bassa e ipnotica.
"Sono arrivata tardi, capisci?” Disse lei grattandosi i capelli. “È per via del tempo. Come fate a gestire il tempo senza nemmeno parlargli?"
"Come?" Non sapevo bene cosa pensare. La morte improvvisa di mio padre mi aveva tolto il sonno da qualche giorno facendo affiorare incubi che speravo di avere nascosto nel cassetto insieme alle mostrine.
"Achille Miracoli è già morto, voglio dire…" Aggiunse lei. "Sono arrivata troppo tardi."
Pensai che si trattasse di qualche scherzo di cattivo gusto o peggio ancora. Quando mi avvicinai, però, Felicita cercò di tranquillizzarmi.
"Va tutto bene, Marco. Lei è… lei."
La donna in nero si alzò con calma, fece un cenno a Felicita per ringraziarla della presentazione - decisamente poco chiara, - e si girò verso di me.
Aveva due grandi occhi verdi. Erano arrossati, forse per il riflesso dei capelli, forse per un velo di commozione che non ero ancora in grado di comprendere.
"È già morto, ok. Voglio dire, dovevo aspettarmelo. Arrivo sempre dopo che sono già morti..." Mi disse come se potessi seguirla. "Ma questo deve cambiare, da oggi in poi tutto questo deve cambiare. Dobbiamo fermarla."
Era davvero bella. Matta e bella. Non avevo il tempo e la voglia di gestire i matti del paese, quella mattina, anche se erano matti dagli occhi profondi e penetranti.
Le indicai di nuovo la porta e con il poco tatto che mi caratterizza in certi momenti le afferrai un braccio spingendola nella direzione dell’uscita.
"Che presa, ragazzone! Chi sei tu, il buttafuori? Ti devono avere assunto durante la pandemia…"
Vita si svincolò dalla mia presa con una giravolta; non sono mai stato bravo a capire le persone dalle loro parole, ma sono perfettamente in grado di capirle da come si muovono. E quella ragazza era molto agile, leggera e più forte di quanto potesse sembrare.
"Dobbiamo fermarla," ripetè. "Per farlo, però, mi devo fidare di te."
"Cosa stai dicendo?"
Mi ignorò, guardò Felicita. "Giovanotta, avete uno di quei cosi che danno la scossa e resuscitano i morti?"
Felicita indicò il defibrillatore appeso al muro. Vita le disse di prenderlo e prepararlo. Lei, come se fosse normale, eseguì.
"Non capisco cosa sta succedendo qui," ammisi mentre avevo già aperto la porta per fare uscire la ragazza. "E se devo essere sincero oggi non è giornata... Felicita, dì alla tua amica di passare dopo il fine settimana."
"Da dove vengo io non c’è il fine settimana. Dobbiamo fermarla ora e io ho bisogno del tuo aiuto. Voglio dire, avevo bisogno di Achille, ma sono arrivata tardi. Quindi dovrai andarmi bene tu." Disse questo mentre si toglieva un guanto e mi si avvicinava. "Voglio che tu sappia che quello che sto per fare non mi da alcun piacere, ma è necessario perché io possa conoscerti meglio."
Guardai Felicita che nel frattempo aveva recuperato il defibrillatore dal muro e lo stava accendendo. Continuava a sorridere e tranquillizzarmi. Mi sembrava tutto così surreale. Ero incuriosito e indispettito allo stesso tempo.
"Cosa... Cosa vorresti fare?"
Lei mi avvicinò la mano affusolata al volto e quando le sue dita affusolate mi sfiorarono la pelle, sentii un calore scendere lungo il corpo e un brivido che rispondeva a quella scossa risalendo la spina dorsale.
Ero immobilizzato, non riuscivo a muovermi. Quando mi si avvicinò ancora, il suo volto di fronte al mio, i suoi occhi dentro i miei, non vedevo più la ragazza dai capelli rossi che aveva interrotto la mia prima mattina da beccamorto. Vedevo un altro mondo. Simile al nostro, ma abitato dalle ossa dei morenti.
Le sue grandi labbra carnose mi sorridevano sfacciate. Avevo voglia di morderle, ma ero impotente.
"Ecco cosa faremo, ragazzone. Ora ti bacerò. Voglio essere sincera con te. Non bacio da qualche centinaio di anni. Voglio dire, non ho avuto il tempo di comprare delle mentine e ti dovrai accontentare di una cosa molto casta."
"Non capisco," biascicai.
"Ora ti bacio," ripetè lei, quasi scocciata. "Questo sventuratamente ti ucciderà, ma non ti preoccupare. Perché Felicita qui sa come usare il coso che da le scosse... Vero Felicita?"
Il defibrillatore emise un rumore e Felicita annuì inserendo i cavi delle piastre. Facevano sul serio? Perché non riuscivo più a muovermi?
"Ora. Ecco il piano, cherie. Numero uno: bacio. Numero due: rianimazione. Numero tre: parliamo di come fermarla."
"Chi devi fermare?"
"La fine del mondo, ragazzone. Possiamo parlarne dopo che sarai morto?"
Quella mattina avremo dovuto accogliere la morte nella nostra casa, io non immaginavo certo che fosse una rossa che mi avrebbe ucciso con un bacio. Il migliore bacio che avessi mai ricevuto, aggiungo. Quello che fermò il mio cuore.